martedì 28 agosto 2018

Fine agosto. Voglia vaga di scrivere. Forse perché ho appena finito un bel libro. Uno di quelli che ti restano attaccati per un po', come se continuassi a leggerli nella mente, come se il fraseggiare si aggirasse nel tuo corpo liberamente, sussurrando dall'interno. E allora mi viene voglia di scrivere. Anche di niente.
Mi viene sempre voglia di scrivere. Appena ho un attimo di quiete. Appena si addormenta uno dei bimbi e ho qualche momento quieto, appena la testa si svuota del quotidiano e dell'imminente e si riempie di tutto ciò che è sospeso e aspetta una collocazione, un divenire, un compimento.
Guardo il quaderno dove ho accumulato appunti, post-it, pezzi di racconti, bozze di testi, idee e immagini. Lo tengo e lo riempio dalla nascita di mia figlia.
A intervalli regolari ricordo a me stessa con estrema nostalgia che non scrivo da più di tre anni e invece no: lo tengo in mano il lavoro che porto avanti da più di tre anni. Arriverà il momento in cui tutto troverà ordine, prenderà forma, verrà limato, cucito, farcito, assumerà un aspetto e, come al solito, scoprirò che sotto c'è sempre stata una direzione, che la mia scrittura ha una volontà anche propria di portarmi dove devo andare.
Scrivere. È un verbo distante da pubblicare, da essere scrittore. È un'azione. Basta a se stesso.
Non lo so se ha un senso accumulare dettagli, tessere storie, inventare caratteri, costruire situazioni. 
I lettori sono ridotti. Ma lo devo fare. Anche se i lettori non ci fossero affatto.
Ragione e significato.
Quello che resta.


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