In cerca
di una landa
di deserto vergine,
mi sono fermata
sull'autostrada più alta
e ho stretto
nelle mani
il silenzio.
6 maggio 1997
Il simbolismo
“Dalle losanghe di lapislazzuli partivano arabeschi, si svolgevano lungo le cupole dove, su intarsi di madreperla, scivolavano luci da arcobaleno, fuochi di prisma (…)
E’ quasi nuda: nell’ardore della danza i veli si sono sciolti, i broccati sono caduti: ella è vestita solo di oreficerie, di lucidi minerali.”
(Joris-Karl Huysmans, A rebours, 1884)
L'apparizione, Gustave Moreau, 1876
Seguendo i passi dell’allegoria e della metafora, cercando i segni del passato e del futuro mi sono ritrovata ad indagare l’interiorità, la sensazione, la visione, il sogno sulla superficie di tele otto-novecentesche che oltrepassano l’Europa e che si trovano oggi e per qualche mese in corrisposta compagnia al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, scrigno di reali adamantine meraviglie.
Curata dalla conservatrice onoraria del Musée d’Orsay la mostra sul Simbolismo da Moreau a Gauguin a Klimt è una meritevole retrospettiva che attraversa, in tre sezioni cronologiche, l’intera corrente, dai precursori alle ultime creazioni oltre l’inizio del Novecento, quando il movimento già si confonde con la Secessione, col Modernismo, con l’Espressionismo.
Spinta dall’aspettativa (mai delusa) di vedere un’altra notevole mostra temporanea al Palazzo dei Diamanti – sempre capace di orchestrare esposizioni curatissime negli aspetti museografici, dalla disposizione delle opere all’illuminazione all’organizzazione del percorso del fruitore – sono entrata già magnetizzata dall’Apparizione di Gustave Moreau, appesa nella II sala in modo che la si vedesse da subito, icona del movimento e summa simbolica, visione complessa e preziosa, storica quanto mistica, bellissima quanto inquietante, sulla scorta di un decadentismo che è preda di un fascino liturgico ed ambiguo oltre che morbosamente sensuale; ma inutile nascondere che il mio primario interesse era per i due preraffaelliti che sapevo avrei trovato: un ardente, conturbante Dante Gabriel Rossetti e un pregiato, narrativoEdward Burne-Jones.
La principessa addormentata, Edward Burne-Jones, 1872-94
Nella costante difficoltà non solo di vedere opere ma anche di rintracciare in Italia testi validi sulla Confraternita dei Preraffaelliti, ogni volta che ne avverto la presenza è difficile non farvi confluire tutta la mia attenzione di appassionata di interni, atmosfere cavalleresche e poesia stilnovista; chi mi accompagnava ha dovuto aspettare con molta pazienza che mi staccassi dalla luce calda e dal broccato rosso della Sibilla Palmifera e dalla vibranteBeata Beatrix di Rossetti, nonché da La principessa addormentata di Burne-Jones, grande tela dal cromatismo freddo e raffinato, parte dublinese del ciclo della Briar Rose sulla favola della Bella addormentata nel bosco.
Lo specchio della vita, Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1895-98
Una nuova arte, un movimento reso tale dalla presenza di un Manifesto (pubblicato dal poeta Jean Moréas), una suggestione soprattutto, che scorre sulle tele di artisti uscenti dall’Impressionismo e alla ricerca di una realtà più semantica che mimetica, più iconologia che iconografica, ispirata da un’estetica decadente e da un estro parnassiano, ognuno apportando il proprio contributo, ognuno sondando il proprio animo e la propria visione del mondo, sfociando in creazioni diversificate, ma unite dalla scelta di temi ancora un po’ romantici eppure già quasi surreali, di certo pregni degli incanti e delle influenze delle differenti terre d’origine e tradizioni letterarie.
Il simbolismo mi ha coinvolta, mi ha indotta a farmi domande e a cercare sensi ed accezioni, mi ha avvolta in un velo di trasparenze e preziosismi carichi di cultura, formule ed emblemi, e sono uscita dalla mostra arricchita e un po’ sognante, portando dentro un vagheggiamento del passato come di un altrove perenne fatto di cromie, lirismi ed amenità.
fine settimana...
Evasione e cambio di scenari, distrazione di ricarica in vista di tensioni settimanali,
l'intensità di un precoce passaggio di stagione nei campi dalle diverse colture...
Figure, immagini, simboli e cromie per avere un'emozione e suscitare una reazione, creare un ponte,
lasciar vedere un'altra parte di me...
Strada e tramonto sulle pinete, sui corsi d'acqua
sera di vento, passi, parole e "melaranci"
in attesa di una luna piena e rossa ad eclissare, a stropicciare gli umori, a sottolineare alcune luminosità...
Mattina e una diversa dimensione , presa in mezzo tra il voler essere partecipativa e il sentirmi spaesata,
ma una piccola distanza è un buon punto di osservazione, un istante catalizzatore di energia ed elettricità che sale dal terreno esplorato,battuto, corso...
E poi tornare al mare, tornare al sole, ad un porto pieno di gente, ad un faro bianco e lontano
ad una panchina di luce e bellezza dell'essere insieme in una piccola piccola magia pomeridiana...
E ancora strada, ancora luna, ancora radio, ancora voce e sorriso e distensione e stanchezza e...
“She is a Beauty Queen
my sweet bean big in the street
take it
down aut to the laundry scene
don’t know why she’s in my hand
can’t figure what it is
but I lie again”
(Beauty Queen, Tori Amos, Boys for Pele)
Ascoltare un album ascoltato milioni di volte negli anni e trovarlo ancora nuovo, ancora denso di sottilissime storie da raccontare...
"They say that your demons can't go there so I got me some Horses to ride on, to ride on..."
(Horses)
Qualcuno di passato mi diceva che mettevo su questo cd ogni volta che ero malinconica, sull’orlo di una qualche dispersione ma io continuo a riflettere e a pensare che lo cerco quando invece voglio ritrovarmi, dispormi in uno stato di profondo ascolto, rivolta a me stessa ma anche all’esterno, come se volessi tirare le fila o tracciare una strada, rendere evidente quel tratto invisibile che mi collega al qui e all’ora ma anche al diramarsi vivo di germogli che vedo serpeggiare verso una o tante direzioni, strisciare sulla terra umida e profumata…
“The Belle of New Orleans tried to show me once how to tango wrapped around your feet, wrapped around like good little roses...”
(Blood roses)
Capolavoro di pianoforte, arpicordo, organo, clavicordo, harmonium che intrecciano atmosfere ambigue e seduttive, rivolte ad un passato nebbioso e popolato di strane figure, mani di bambini alle finestre, rami di alberi nella bruma, cacciagione, fiamme e malinconia…
“You told me last night you were a sun now, with you’re very own devoted satellite, happy for you and I am sure that I ate you…”
(Doughnut song)
L’ho scoperto appena uscito sul percorso in infilata delle cose che mi collegavano all’Irlanda, è stato il mio primo approccio al complesso talento di Tori Amos ed è stato una rivelazione incendiaria, si è imposto come assoluto, è rimasto nella memoria sensoriale come sangue che scorre e che identifica, come essenza in cui riconoscersi, come origine e radice di qualcosa di ancora inspiegato ma fortemente sentito dentro di me…
Scritti, composti e registrati tra Delgany, Cork e New Orleans i diciotto pezzi che lo formano mi trasportano in un altrove azzurro-foschia, mi attraversano e mi sostano dentro puntando ogni volta l’attenzione su una diversa oscillazione o su un passaggio del testo ulteriormente interpretabile, mai del tutto comprensibile nei suoi molteplici riferimenti ed è anche questo che mi piace, tutto rimane sempre sufficientemente implicito da permettermi di cercarmi nelle frasi e nelle note sul sostrato pregno ed emotivamente intenso della sua voce, dei suoi contenuti.
“I’m trying not to move, it’s just your ghost passing through, and now I’m quite sure there’s a light in your platoon, I never seen a light move like yours can do to me…”
(Putting the damage on)
Tori mi abitua ad un ginepraio di input che spaziano e che pretendono spazio ma mi lascia anche libera di trovare una mia femminilità terrena, un mio essere primitiva, emotivamente fluente, mentalmente aperta e la sua musica mi spinge sempre all’istinto frustrante di volerla mettere su una pagina bianca e di non riuscirci, perché non si può tradurre in versi e non si può incidere in una forma grafica il modo in cui mi fa sentire, il contesto che mi disegna intorno come a darmi le coordinate, a suggerirmi i riferimenti…
“ …she will supply, give me a piece, love , kiss, love, give me a piece...”
(Professional Widow)
Colto, provocatorio, classico e modernissimo, con un uso di strumenti antichi fuori da qualsiasi mia precedente concezione, malinconico e indagatore di stati d’animo nonché induttore e suggestivo, questo album, che nel titolo sacrifica gli uomini alla dea hawaiana Pele, è stato un magnetico letto d’ispirazioni per tante delle mie prime poesie, a pochissima distanza dalla perdita dei miei fratelli e compagni di viaggio, nel pieno della formazione della mia personalità, nell’anno in cui imparavo a guidare, in cui affrontavo la maturità, in cui iniziavo a riconoscere la mia carnalità di donna e la mia creatività poetica…
“I said they’re watching my every sound…”
(Marianne)
E tutto questo mi fa pensare che pur cambiando nel tempo, modificandomi e trovandomi disponibile alle variazioni che crescono, che migliorano e rendono ricchi di esperienze e conoscenza, a quei passaggi impercettibili che aggiungono e aggiungono e che formano un giorno dopo l’altro la persona che sei, in fondo all’essere, al centro esatto di te che è la culla, il vaso, la terra, sei la stessa scintilla, il bagliore iniziale,la parte più vera e più viva di te.
“...and Moses I know
I know you’ve seen fire
but you’ve never seen fire
until you’ve seen Pele blow
and I’ve never seen light
but I sure have seen gold...”
(Muhammad my friend, Tori Amos, Boys for Pele)
Sospesi castellani
banchettiamo
nel deserto medievale
delle prime ore,
pallidi ed androgeni
figli di Jane
e del corallo.
banchettiamo
nel deserto medievale
delle prime ore,
pallidi ed androgeni
figli di Jane
e del corallo.
(06 agosto 2000, a D. G. Rossetti)
Venus Verticordia, Dante Gabriel Rossetti, 1864-68
Jane degli angeli
sottile linea e
femminile battito:
il ritratto
è il tocco del
segreto illimite,
il tacito
bacio
dell'intimità.
(02 gennaio 2002)
Oggi è un risveglio.
Le prime ore dopo il pranzo dedicate al giardinaggio, nel sole che stringe gli occhi, che scalda la schiena, pacere d'umori e veicolo di distensioni...
Con le mani sporche di terra, con la mente libera di andarsene e tornare da ogni altrove mi presto al silenzio pomeridiano sperando che mi trattenga, conversando frasi mute di linguaggi parlati ma vive di gesti e tattilità, eliminando decisa i racemi superflui e parassiti, svasando e piantando e annodando sul muro e annusando i profumi rinnovati in questo flusso stagionale che non ha mai lasciato andare del tutto l'estate, che non ha mai permesso di entrare del tutto l'inverno, e adesso - dopo un vento devastante di una sola notte - già qualche notte fa - adesso, oggi, è primavera e tutto spunta, tutto vibra, tutto esprime...
Ho bordure di menta nuova e giovani foglie cuoriformi di melissa cedrina, ciclamini grandi e carnosi, cinque alberelli di Aeneum arboreum verdi e due purpurei (che sono il mio orgoglio); il mirto cresce , il gelsomino è robusto e conquista spazio sulle grate, la buganville non ha mai smesso di fiorire e il caprifoglio sembra riprendere vigore; mancano segnali da una gardenia scolorita e dalla mia ortensia, purtroppo ancora spenta, ancora vuota...
Tutto si rianima e si quieta e torna a splendere e a comunicare voglia di sorrisi e leggerezza, un po' come mi accade di sentire sotto la pelle mano a mano che distanzio certi ultimi momenti...e faccio liste di aromi e di erbe da cucina e faccio schizzi di disposizioni e soluzioni da adottare, altro terriccio, altra terra irlandese, una pianta di rose da far arrampicare...mentre penso che è una buona fine di febbraio, un buon inizio di marzo e che niente riesce a fare quello che sa fare il sole...
Emozione...
Pensiero
tensione
attesa
impegno spinta tenacia concentrazione resistenza
traguardo
soddisfazione
sorriso.
tensione
attesa
impegno spinta tenacia concentrazione resistenza
traguardo
soddisfazione
sorriso.
Ci si misura con la strada, con il tempo, con il proprio corpo, per spingersi al limite e per ritrovarsi arricchiti di un'esperienza che si sente sulla pelle, che si condivide con gli sguardi di chi corre accanto, con il respiro di chi aspetta, con la voce di chi ascolta il resoconto...

Studio completo su Medea, Capitolo I, II, III, Teatro Stabile dell’Umbria, Totales Theater International, Festival delle colline Torinesi
I. Medea & Giasone
Medea già dea.
Sin dall’inizio, nel particolare studio di Antonio Latella (su elaborazione drammaturgia di Federico Bellini) della tragedia di Euripide, Medea s’impone.
E’ dea sessuale che seduce, dea madre che partorisce, dea animale.
Nel corpo forte di Nicole Kehrberger, Medea è superiore a Giasone, è oltre Giasone sempre, persino nel gioco d’amore e di letto introduttivo che tanta parte ha nell’esito drammatico della storia.
‘Siamo corpo e sangue’ sembra voler esprimere il regista in questa scelta di disperdere il testo euripideo in urla, umori, soffi e lingue che sono tutte le lingue e che non ne sono nessuna, in gesti forti, in sforzi più che in azioni narrative e tutto diventa simbolo.
Nudi sulla scena come nuda è la scena, tutta ruotata attorno all’armatura di un letto che è anche gabbia, composto e scomposto ripetutamente dagli attori a sottolineare i momenti, a scandire le sequenze, piano d’appoggio di un atto seduttivo o rete di presa per un’acrobazia che ha il significato del parto ma che ha l’aspetto della violenza.
Violento e sessuale è infatti questo primo atto della tragedia che, come gli altri, pone l’accento sulla forza, sulla carnalità di questa donna in amore che entra in scena felice dialogando un linguaggio di risa e sospiri che però muta in fretta, si scinde nel declinare di un alfabeto le cui lettere sono iniziali di termini di moda per lei e di zone di guerra per lui, già divisi, già distanti e la distanza è quella della donna dall’uomo, del fedele dall’infedele, della barbara dal civile che sta già scegliendo un’altra, più consona, sposa.
Giasone da uccidere sin dalla prima scena (anche se non muore neanche nell’ultima).
Giasone frivolo, puerile, capriccioso, traditore.
Il personaggio, interpretato da Michele Andrei, è presentato nell’interezza dei suoi aspetti risibili, goffi, un carisma al contrario che rileva maggiormente la superiorità di Medea, SOLA nella sua bellezza, SOLA nella sua fierezza, nella verità di ciò che offre al suo sposo, nella scoperta del suo tradimento, della sua indifferenza, SOLA nella mascolinità fisica e nella virilità mentale che la porterà a tramutare in vendetta il suo tremendo dolore, SOLA come soli sono gli eroi greci, inflessibili, incorruttibili, centrali e dominanti sul palco dall’inizio alla fine.
II. Medea & Figli
Strappa i figli dall’influenza di Giasone Medea, li riaccoglie nel suo abbraccio, li addormenta, li lava con la bocca e lentamente e silenziosamente, senza visione di sangue, senza atti efferati li uccide nel sonno, inquietante, mesta, nel risuono dei dieci comandamenti declamati in varie lingue.
III Medea Dea
La Medea di Euripide chiudeva la tragedia apparendo su un carro rialzato rispetto al piano di scena come solo le divinità o il deus ex machina facevano, trasformandosi così da mortale in theos; la Medea di Latella indossa un abito da sposa che si stringe al corpo risalendo - carne e muscoli - una fune che la tiene sospesa sui suoi morti. Vi giacciono anche Alchimenes e Medeios, che apparentemenete tornano in vita soltanto per animare due fantocci (una cifra stilistica latelliana), recanti i loro stessi nomi, cui è affidato il ruolo di narratori del mito tragico arrivato in chiusura a legare l'insieme.
"La notte l'amore, il giorno la terra - dice Medea - Ecco il mio seme, ecco il mio corpo, comandamento ed alfabeto" e mentre lei diventa dea, Giasone diventa clown in divisa che raccoglie i morti in un sacchetto da buttare via, mentre un inatteso Monteverdi alleggerisce la solenne e irrevocabile scelta umana che ha fatto di Medea un essere divino e che ha reso Giasone un uomo solo, che forse neanche alla fine si rende conto della sua tragica colpa.
DIECI CON DIECI CON DIECI CON DIECI
che giocava insieme a dieci gatte.
Ciascuna leccava la punta di un suo dito
e gli faceva un piccolo prurito.
A ogni prurito il bambino rideva
e bruscamente una cosa prendeva.
Così ci furono dieci risate
e dieci code furono tirate."
(Roberto Piumini, 1980)
Esercizi di Antropologia. Sulla follia e sul corpo...
E’ una questione fisica.
E’ mia è folle è discutibile è incomprensibile…
E’ perfettamente visibile per me, e assolutamente imprescindibile.
Soffi, suggerimenti, inviti, eco…
Inevitabile, irrinunciabile, imperativo il richiamo che esercitano su di me. E la pretesa, e la presa che io esercito su di loro.
C’è voluto un tempo ragionevole per conoscerle, un tempo medio concesso a chiunque ma a me un giorno si sono manifestate apertamente, e non erano schierate come un esercito, non avevano intenti coercitivi, erano strane e sinuose e avevano tanto da dire sotto l’aspetto trascurabile e formale che credo tutti attribuiscano loro.
Non erano molte e non erano un’armata perciò sembrava strano l’effetto di costrizione, come se non mi potessi sottrarre, mai più...
Mi accerchiarono, questo fecero, ed è tipico del loro modo di fare quando sono state ben scelte e ben reclutate, ben educate potrei dire se non sapessi che la loro volontà spesso è maggiore di chi le comanda.
Mi parlarono all’orecchio quel giorno, non ebbero bisogno di alzare la voce, neanche di renderla udibile a tutti, mi sussurrarono parlando di cose che già conoscevo ma che non avevo avuto modo di oggettivare, questioni e reazioni e sensazioni che inconsapevole mi portavo nello stomaco o più giù, nella pancia, e che ancora non avevo ascoltato, a sedici anni non lo sai ancora come si devono usare i cinque sensi, a volte non lo sai neanche dopo, l’ebbrezza che ti coglie è totalizzante.
Lo feci però. Mi fidai come si sa fare solo con l’istinto, non aveva parte in quella dimensione la mente, non ancora e in parte ancora non ne ha.
Fu un episodio isolato per qualche tempo ma poi tornarono e la loro portata era aumentata e il loro assalto era più deciso ed erano ovunque su di me e perdevo il fiato e perdevo l’identità o più propriamente la trovavo ma, che cosa volevano, che cos’erano, che cercavano proprio in me che ero sempre stata quieta, che ero sempre stata innocua?
Non trovavo risposte ma quello che avevano fatto era subdolo e affascinante, non mi permettevano di respingerle mai.
Quando si presentavano iniziavo a percepirle in precedenza e la mia disposizione d’animo cambiava, mi apprestavo ad aspettarle, e più loro erano vicine ai miei sensi più io mi sentivo: le pulsazioni, i respiri, la condizione di ascolto in cui mi mettevo ed in cui mi perdevo, perché non sapevo se ascoltare me o se ascoltare loro, se ero io o se erano loro.
Mi aprivo però, ampliavo il torace, scioglievo le spalle, allargavo le braccia, stendevo le dita, piegavo il collo, e loro entravano o uscivano, non lo so ancora dire, mi attraversavano più e più volte e arrivavano al centro esatto di me, che era il punto più fondo e la nota più alta al contempo, creando un tale caos e una tale chiarezza, liberando un tale ramificare di significati e di vibrazioni in tutto l’essere che avevo i brividi sulla pelle e avevo sempre maggiore desiderio di toccarle oltre che di vederle come già facevo.
La cosa straordinaria è che non diventarono mai un’abitudine. Tutto prima o poi lo diventa, specie questo tipo di rapporti, che sono da subito intensi, ne percepisci l’esclusività, la lusinga, creano dipendenza, poi scemano, scivolano nel consueto, e in fine si disperdono.
Non è andato perso niente, gli anni hanno acuito l’impeto, affinato l’amplesso, colmato le lacune, dilatato la ricerca; l’esercizio ha migliorato i risultati, ha moltiplicato gli strumenti di richiamo reciproco, ora so cosa cercare e come cercarlo e dove cercarlo, riconosco le singole parti di me e la produzione di sensazioni, so cosa arriva dalle gambe, cosa circola nel ventre, cose sale, cosa scende…
Le mani sono sempre state la zona privilegiata dei nostri incontri.
Col tempo ho compreso che è stata la mia indole tattile ad attribuire loro un corpo singolo ma anche plurimo, e prima o poi, indipendentemente da dove iniziano, da dove partono, arrivano alle mani, attraversano lentamente i palmi, sfiorano tutta la lunghezza delle dita fino alle punte e cosa riescono a dire….
Esse hanno un corpo, hanno rotondità, profumo ed anatomia, ed hanno voce ed hanno respiro e mi sono intorno così carnali ed umane che non mi spiego mai bene dove comincia la mia creazione e dove finisce la loro autonomia.
Sono arrivate implicite, difficili, violente, sono arrivate a delineare immagini, sono comparse a tinte forti per mostrarmi chenon ero mai stata quieta, che non ero mai stata innocua, sono comparse per rivoltarmi e instradarmi alla consapevolezza di me, del mio corpo, delle disordinate sensazioni che produceva, di come queste s’intrecciavano ai pensieri, alle riflessioni, alla conoscenza, al vissuto quotidiano ed oltre.
Sono venute come poesie, sono sgorgate dove non c’era mai stato silenzio ma neanche più che rumore, e hanno tracciato con la mia penna percorsi sempre nuovi per catalizzare, attrarre, estrarre, per esternare.
Erano carne, erano luci al neon, erano mani e sangue, nebbia, rabbia, oscurità.
Poi erano morte, distanza, distacco, perdita ed eco nel vuoto, erano ancora rabbia, e voce e Dio.
Furono pianti per tanto tempo.
Qualche sorriso, qualche risata forte, qualche morso.
Dopo dieci anni il legame era talmente intenso e il cammino fatto insieme così tanto che tutto si era ammorbidito, e si apriva per noi una nuova fase, quella della prosa, quella dell’esplicito ma non del tutto, ché un po’ di mistero rende sempre più interessante una relazione, e allora sono state metafore, allegorie, simboli, figurazioni…
E allora sono state frasi, periodi, costruzioni.
Sono ed erano parole.
Che scelsero e che sono me.
(Hundertwasser)


Spengo uno strano intreccio di pensieri,
stempero le linee e le onde di questa giornata dal ritmo stravagante,
smorzo l’insinuarsi progressivo di uno strambo stato d’animo che aveva teste d’inquietudine e che ora ha code di eccessivo…
Mi pianto come un seme in questo attimo di leggerezza ricercata,
ramifico una distensione successiva che s’infonde in tutto il corpo
germogliando lenti accenni di silenzio,
finché l’aria non si satura di un qualche innesco ricreativo portatore
di freschezza, luce, brio e sentore di acquietata e ritrovata libertà…
"La barca s'inclina sulla tua immagine sulle onde tra un
incendio di schiuma e il fiore dei raggi lunari, tali le
bandiere delle tue labbra sognanti. Io sto guardando Venere
sul cielo fatto orco e un continente in bozzolo.
Presto tutte le farfalle del desiderio manifesteranno oh
prescienza della vita che diventa poetica...e poesia
l'incenso del sogno. Una strada e una foresta
s'interscambiano d'abito, quell'albero di telefoni, questa televisione di
bacche e chiocciole - l'aria musica che si può mangiare.
Re Analogo
Regina Immagine
Principe Libertà...
...Giardino d'imperiose immagini, la vita è una poesia
che un giorno va vissuta: la festa dei nostri cuori in fiamme,
i nervi che forniscono le spezie, il sangue insegue un
avvampo d'insetti, i nostri occhi dalie di ignizione
torrenziale."
(da Il movimento romantico, Philip Lamantia)
°Sabato di sospensione, come se il pomeriggio volesse °°racchiudermi, tenermi stretta dentro° grandi palmi di petalo e atemporalità.. °° °
Seduta accanto alla finestra, sottratta alla pioggia grigia della strada,°riscaldata dal tè al bergamotto, guardo la tazza con le rose accanto al bricco pieno di °°questo filtro che profuma gli umori corporei, che distende la mente, tra le mani tengo un libro di poche pagine e tenue nello spazio della stanza risuona il ° piano di Giovanni Allevi... ° °
Mi °°rifugio nel conforto dei miei semplici rituali, nella carezza °dolce delle ore che non hanno impieghi, nei pensieri che hanno corpo nella testa,° nei ricordi °°dei momenti piacevoli °vissuti da poco, istanti che mi stupiscono, attimi che vivono di una speciale condivisa intensità... °°
° °°
°
“ VLADIMIRO: Proibito anche il riso.
ESTRAGONE: Bel sacrificio.
VLADIMIRO: Si può solo sorridere. Non è la stessa cosa. Comunque…”
(Aspettando Godot, Atto I )
Ma noi abbiamo sorriso eccome, abbiamo sghignazzato, ridacchiato, riso forte fino alle lacrime per un momento centrale di pura, intelligente, brillante ilarità, e abbiamo riflettuto e soppesato passaggi affatto superficiali, affatto assurdi dei due atti del Godot di Samuel Beckett inscenato ieri sera dalla Compagnia Laboratorio di Pontedera .
Abbiamo aspettato l’arrivo di un personaggio che non è approdato sulla piccola semplice scena del teatro, su una strada di campagna racchiusa tra montagne azzurrine nello spazio vuoto del tempo che non scorre, che bisogna riempire di parole e di azioni e congetture e propositi per non evaporare, nell’arco di una giornata che non si decide a passare e che mentre avanza cancella la memoria dei fatti, confonde, equivoca…
E poi la notte arriva in un momento, inonda tutto di un blu fondo e dietro l’unico albero si appende immensa la luna mesta e silenziosa.
Godot lo abbiamo aspettato con un Didi e un Gogo reinventati, ma sempre fedeli, nella cadenza settentrionale e nella gestualità sghemba di Luisa e Silvia Pasello, sempre in bilico tra l’andarsene e il restare, tra il desistere e il tentare, affiatate e confortate e irritate dalla reciproca presenza proprio come due sorelle, due fratelli, due amici di vecchia data, due compagni, due coniugi, due individui di questa umanità in eterna attesa di qualcosa, di qualcuno che forse arriva domani, che non arriva mai, che non arriva più…
Ma mentre si aspetta e si indugia nelle ore che all'incirca sono minuti, che forse sono giorni, e negli anni che probabilmente sono settanta, che quasi sono undici, capita che arrivino a prendersi tanto spazio sulla scena due soggetti legati da una corda, un guinzaglio, e così divisi da una gerarchia: un Pozzo dal tono pieno e imponente, la voce del padrone capriccioso con velleità da oratore, e un Lucky che è tutto fuorché fortunato, uno strano uomo bianco di pelle come di capelli che è un cane fedele e un mulo sfruttato, benché spesso appellato col nome di maiale…
Savino Paparella e Tazio Torrini sono il logorroico e il silenzioso, il padrone scontento del servo che però non si risolve a lasciare e l’oppresso ominide dalla gestualità da mimo capace di incredibili pensieri e declamazioni soltanto se comandato.
Ma ne’ l’uno ne’ l’altro è Godot, sono magari Caino e Abele, sono il simbolo di un’intera umanità, ma sono soggetti al vuoto esistenziale dal quale soltanto qualcuno che non si decide ad arrivare può salvarli tutti.
Però Godot dalla barba bianca non si fa vedere, non stasera, sicuramente domani.
Così i due atti che sono un reiterare di situazioni vagamente variate, con la memoria che perde colpi, che gioca scherzi, con i corpi stanchi e acciaccati da una vita di aspettative vanificate in cui nessuno si riconosce sul serio ma avverte il vago sentore di un precedente contatto, in cui nessuno è sicuro che fosse proprio quella l’ora, proprio quello il posto…
Non si sa nulla.
Solo l’albero vive, un salice piangente che ha perso le foglie, che ha smesso di piangere, forse perché qualcuno l’ha sostituito, perché - come spiega Pozzo - “ le lacrime del mondo sono immutabili. Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chissà dove, smette. E così per il riso”.
Ciò che conta è essere presenti a se stessi, sapere in questa vita qual è lo scopo, qual è l’intento, e Vladimiro ne è cosciente: “Che stiamo a fare qui, ecco che dobbiamo chiederci. Abbiamo la fortuna di saperlo. Sì, in questa immensa confusione una cosa sola è chiara. Noi aspettiamo che venga Godot”.

"Sopra il pianeta Venere
c'è un uomo di cenere,
è alto bello e agile
però è molto fragile.
Ha due begli occhi rosa
e la bocca armoniosa,
ha un corpo ben formato
però è delicato.
Ha mani da poeta
e pelle come seta,
denti come l'avorio
però è provvisorio.
Sopra il pianeta Venere
c'è un uomo di cenere,
se ne sta là contento
finché non tira il vento."
(L'uomo di cenere, Roberto Piumini, illustrazione Anna Curti)
Da piccola ho ricevuto questo libro di poesie dal titolo C'era un bambino profumato di latte. Me ne sono innamorata. Le illustrazioni così malinconiche e le tinte così tenui, e i versi semplici ma pregni di qualcosa che intuivo ma che ancora non avevo i parametri per capire. L'uomo di cenere aveva qualcosa di molto affascinante, come una versione adulta del Piccolo principe, non riuscivo a non chiedermi che tipo di mani fossero le mani di un poeta....
A volte mi sembra di essere anche io fatta di cenere, in attesa che il vento venga a disperdermi...
“La condizione d’esercizio della scrittura dipende senza dubbio da un andamento inerziale delle parole, che portano e portano dove vogliono loro, mai dove vogliamo noi. Portano là dove sono chiamate dalle voci che parlano all’anima, le quali sorgono da chissà dove, comunque sempre da molto lontano.”
(Gianni Celati, dall’Introduzione a Bartleby lo scrivano di Herman Melville)
Le parole…
Tornano di prepotenza a volte le mie.
Bussano e chiamano affinché io apra un ingresso di me e le faccia arrivare alle mani, alle dita, per stringere una penna, per battere sui tasti…
Ne ho scritte a migliaia negli ultimi cinque anni, il conto preciso me lo ha dato il pc poco fa quando ho avuto l’occasione di ristamparle proprio perché hanno ricominciato a chiamare.
Questa volta sono state le parole già scritte a rimettersi in piedi per una nuova emersione: dovrò farne un estratto, dovrò leggerle in pubblico, dovrò dare loro suonoe corpo al fine di dare loro una strada e un traguardo e già ne avverto l’impeto, la pressione, la vibrazione…
Quando intraprendi un piccolo viaggio guidata da uno strano istinto anche se la meta ti sembra confusa e poi, a poco a poco, distingui i segnali di una logica sotterranea in tutti i passi che compi, ti appare quasi inverosimile che certi spazi si possano configurare espressamente per te, che certi prodigi possano avvenire per infonderti fiducia, per rinnovare la spinta, per portarti verso precise dimensioni…eppure certe volte è esattamente così.
E ne ricavi una sensazione di estatico benessere, rapita dall’effetto della sorpresa.
Sai bene che può trattarsi soltanto di uno scatto apparente, di una temporanea ripresa, peggio ancora di mero fumo, ma non puoi non cedere a un tale input e perché non dovresti tentare?
Le parole già scritte, che sono e che sempre saranno, a fissare certi miei momenti, a definirmi, a rendere in immagini la porzione di strada percorsa fino a qui.
E poi le parole che vado scrivendo, le atmosfere che vado evocando, i nuovi caratteri che sto lentamente ideando.
Queste al momento sono in stand by, in attesa di una maggiore concentrazione, sostano in qualche fondo di me aspettando una più vasta disponibilità mentale alla creazione, una più libera capacità di pensiero e ricezione, componenti attualmente tutte reclutate da uno studio che moltiplicherà i parametri e gli strumenti, che aumenterà le conoscenze, che affinerà le possibilità di percezione…
Speriamo di esserne all’altezza.
Cose da fare e posti dove andare…
Ferma ora e dispersa nella musica, che è spazio e immensità, di David Gilmour, mi appoggio a riflettere nell’arco di un tempo lento e fatto di una solitudine che è appena una sospensione, un silenzio interiore dentro la melodia che si estende all’esterno…
Mi metto in ascolto del mio umore, con la mente, con le parti vibranti di me, mentre il corpo si stende piano e si apre agli attimi che compongono questo piccolo momento raccolto attorno alla luce fioca sul computer, sulla scrivania…
Una sosta, niente più che un indugio tre me e le mie parole mentre penso che qualcuno è lontano ma che io riesco a sentirlo, che ladistanza è una distensione di superficie ma anche una distesa colma, e non c’è sottrazione dove non c’è vuoto, su una strada dove tutto è intero perché composto da più parti che iniziano a stare spontaneamente e significativamente l’una accanto all’altra…
Giusto una breve interruzione nell’andare pronto e svelto del giorno dietro ritmi dinamici, una frazione temporale fatta di sola sensazione e di solo pensiero, ridotta all’essenziale di me e per il resto dissolta nella musica…
mercoledì, 24 gennaio 2007
"ESTRAGONE : Non ce la caviamo mica troppo male, èh, Didi, noi due insieme?
VLADIMIRO: Ma sì, ma sì. (...)
ESTRAGONE: Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l'impressione di esistere?
VLADIMIRO: Ma sì, ma sì, siamo dei maghi. Non ci lasciamo mai distogliere dalle nostre risoluzioni."
(dall'Atto II di Aspettando Godot di Samuel Beckett)
VLADIMIRO: Ma sì, ma sì. (...)
ESTRAGONE: Troviamo sempre qualcosa, vero, Didi, per darci l'impressione di esistere?
VLADIMIRO: Ma sì, ma sì, siamo dei maghi. Non ci lasciamo mai distogliere dalle nostre risoluzioni."
(dall'Atto II di Aspettando Godot di Samuel Beckett)
“Bocca, che se ragiona o ride,
con invisibil arme punge, e all’alma
dona felicità mentre l’uccide.
Bocca, che se mi porge
Lasciveggiando il tenero rubino
M’inebria il cor di nettare divino.”
(Lucano, dall’Incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi e Francesco Sacrati)
Nuovi viaggi prendono il largo su ampie navi verso porti sicuri o su zattere improvvisate spinte da venti possenti e ispirate da tinteggiati stimoli.
Nuovi viaggi del pensiero e dell’intelletto, viaggi di completamento, di crescita e di conoscenza, accompagnati dai più accesi mentori e spalleggiati da interessanti compari d’apprendimento, e tutto al fine di esserci e di trovarsi su una strada, la nostra, che ancora un poco aspetta a lasciarsi individuare…
Il ritmo dello scorrere del tempo cambia battito e cambia pure il levare nell’organizzarsi, nel concentrarsi, nell’assimilare, ché è un nuovo studio, un nuovo aspetto, un nuovo mondo fatto di parametri non dissimili da quelli a cui eravamo abituati ma differenti nelle sfumature, nei termini, nei particolari, che pure si lasciano addentare e gustare con le medesime categorie di critica e di analisi…Sarà che siamo sempre noi in rapporto a tutto il resto, sarà che tutto lo scibile è possibilmente collegato, sarà che una strana forza esaltante striscia dentro ai libri e salta da un volume all’altro esercitando un’influenza inarrestabile….
E mentre il clima cambia da una giornata all’altra e mentre il nuovo anno rotola in discesa verso altri interessanti piani, noi ci facciamo prendere da dimensioni complicate, da antiche melodie e da nuove tecniche, dalle interpretazioni e dalle rivelazioni, dai modi effimeri della messinscena che ci danno l’occasione di una più ampia competenza, certo, ma che, come ogni cosa, insegnano a leggere, a vedere, ad assaporare la vita nei suoi diversi aspetti fornendoci una metafora, un’allegoria laddove le parole semplici o semplicemente le parole non dovessero bastare…
E come il poeta Lucano si abbandona ad un amore carnale e imperante così ci si lascia coinvolgere da tutto ciò che migliora la qualità di quel che si vive, guardando ad occhi spalancati, ascoltando aperti e tutti accesi, e sentendo fino in fondo all’essere ogni vibrazione di nota… o almeno così dovrebbe essere…
"Fu ben felice il giorno,
mio ben, che pria ti vidi,
e più felice l'ora
che per te sospirai,
poich'al mio sospirar tu sospirasti"
(Orfeo, dall'Orfeo di Claudio Monteverdi)
Vedere il bicchiere sempre mezzo pieno – mi s’insegna…
Ed è un punto di vista.
Un buon mantra, una spinta a prendere da sé lucidità e tenacia e forza d’animo e dal resto il meglio, il buono, il necessario alla crescita e all’apprendimento del vivere quotidiano, trasformare tutto in una giusta combustione, in un fuoco stimolante e produttivo.
Un punto di partenza positivo – non semplicistico - ,
un punto di vista altro rispetto al solito, magari sterile, del bicchiere mezzo vuoto, perché a cambiare la prospettiva da cui si guarda cambia tutto, non era forse questo che rammentava il professor Keating ne L’attimo fuggente chiedendo ai suoi allievi di salire in piedi sulla cattedra?
Il vivere quotidiano…con le lotte, le decisioni, le frustrazioni, le delusioni…con le condivisioni, le sensazioni accese, l’impegno, le mani offerte, l’esserci…
Il vivere quotidiano.
Il vivere.
Siamo ancora qui oggi, siamo, mentre molti se ne sono andati, dispersi, molti ci lasciano su strade a volte troppo ampie, strade sconosciute, strade non ancora individuate…e il nostro compito è trovare compiutezza e identità, vederci, respirare a fondo, sentire la bellezza e metterci una mano sulla pancia, sede empatica di un corpo che ha bisogno di calore, che tende al tattile, all’umanità…
Sentire, sentire che ci scorre nelle vene, che pulsa l’esser vivi e che questo stesso germe vitale deve essere il monito che ci identifica e che ci fornisce dignità.
Ed è a me stessa che ricordo oggi di drizzare la schiena e di aprire più il torace, è me stessa che schiaffeggio con un guanto per rimettermi alla prova, per dare nuovo avvio ad una nuova sfida – chè non si smette mai di correre ne’ di tentare, non si smette mai di perdersi per poi cercarsi, ed ogni nuovo giorno si è un po’ più veri, ed ogni nuovo giorno si è vissuto qualche passo in più.
“Oh me! Oh vita! Di queste domande che ricorrono,
degli infiniti cortei di senza fede, di città piene di sciocchi,
di me stesso che sempre mi rimprovero,
(perché chi più sciocco di me, e chi più senza fede?)
di occhi che invano bramano la luce, di meschini scopi,
della battaglia sempre rinnovata,
dei poveri risultati di tutto, della folla che vedo sordida
camminare a fatica attorno a me,
dei vuoti ed inutili anni degli altri, io con gli altri legato in tanti nodi,
la domanda, oh me, la domanda così triste che ricorre – Che cosa c’è di buono in tutto questo, oh me, oh vita?
Risposta
Che tu sei qui – che esiste la vita e l’individuo,
che il potente spettacolo continua, e che tu puoi contribuirvi con un verso.”
Walt Whitman
(E grazie a chi mi ha spinto a quest’analisi con parole che, per quanto effimere, non cadono mai in un vuoto di me…)
“Quest’uomo non aveva nemmeno un tavolo come si deve,
però aveva centinaia di libri (…).
Fin dall’infanzia considerava il libro come
segno di una fratellanza segreta.
Un uomo che aveva in casa una biblioteca come quella
non poteva farle del male.”
(da L’insostenibile leggerezza dell’essere, Milan Kundera)
Nella mia stanza a leggere - già il nuovo anno, un libro che avrei dovuto terminare nel vecchio ma per il quale mi è mancato il tempo o la concentrazione, e per il quale forse nutrivo e nutro ancora un po' di paura...è un libro profondo e importante che mi punge la carne, che mi fa male, ma me lo impongo perchè mi permette di guardare i miei timori con occhi cui una certa aria rigida e invernale conferisce lucidità, lo leggo perchè percepisco una crescita nel comprendere certi passaggi, nel vedere spiegate sulla pagina le sfumature fonde che ora posso chiamare con un nome - ... nella mia stanza , accanto e in mezzo a un migliaio di volumi che sono la strada di mattoni gialli della mia vita e, mentre sono immersa e rivolta ad est, sento flussi di altre atmosfere ed altre conoscenze salire e stringermi, piccoli accenni di sensazioni, flash subito individuati di studi fatti, di cose lette, di argomenti già trattati: gli inverni piegata sui libri ad approfondire Munch e Ensor, i viaggi a Milano per le mostre di Klimt o Kandinskij e i discorsi ampi davanti alle opere, la chiara azione che l'apprendimento esercitava sul mio stato d'animo e l'ebbrezza e il delirio estatico del sorriso che ne conseguiva e che ancora - ancora oggi - ne consegue... E non so se sia una nostalgia per un mondo d'arte che per ora cede il passo a nuovi tasselli cognitivi (altrettanto entusiasmanti e interessanti) o semplicemente un mio momento di particolare apertura e ascolto delle correnti circostanti, forse per via del plenilunio di ieri, forse per via del ginepraio di emozioni di certi ultimi istanti, certo è che dire che le ore sono fatte di pigmenti e mani e stili e pennellate è una metafora sempre calzante e quando sentiamo certe vibrazioni è come se ci trovassimo in un tempio - qualcuno mi ha fatto notare - nel quale contempliamo e ci apriamo in silenzio e mentre dal di fuori fingiamo o sembra che siamo distratti in realtà guardiamo, ascoltiamo e percepiamo al massimo, custodendo ogni variazione tonale, serbandola per un altro momento, quello giusto, quello perfetto.
"Prima di scomparire definitivamente dal mondo la bellezza esisterà ancora un poco per errore"
(da L'insostenibile leggerezza dell'essere, Milan Kundera)
Tempo di bilanci. * *
L'anno si chiude e guardare indietro può essere una pratica o un istinto, * una riflessione utile o una pena inflitta, qualcuno tira le somme la notte, prima di dormire, qualcuno appena sveglio, per celebrare in * qualche modo il 31, per esorcizzarlo anche alzando le spalle e ridendo di se stesso e dei propri errori, qualcuno cuce un angolo di solitudine *in riva al mare mentre il mondo è impegnato altrove e qualche altro...qualche altro sa bene cosa gli è successo e quanto tutto sia cambiato... *
I mesi sono andati ed è scorso via un inverno seguito da insolite stagioni e viene da pensare che abbia avuto un magico esito quel pensiero in quel brindisi in quella notte di un anno fa... *
E a guardare indietro * si vede anche un cerchio rosso segnato sul calendario che tengo in fondo all'essere, domani un decennio che manca, domani dieci interi anni privi di lei...
Dieci volte addio angelo bruno, dieci volte buonanotte...... * *
* ........e un intenso 2007 ad ognuno di noi.

In casa mia oggi si respira aria natalizia, perché si respira odore di zucchero, profumo di pasta frolla calda dal forno, glassa che si scioglie…
Ieri ho fatto i biscotti alla cannella, ai pinoli e con la marmellata, e i muffins con le gocce di cioccolato, e tutto è rimasto nell’aria, imprigionato negli atomi, sospeso, ed è sceso come una lieve pioggia dorata sulla superficie delle cose durante la notte…le lenzuola profumavano di miele, ogni respiro era bordato di una dolcezza un po’ liquorosa, ed è più facile sorridere al risveglio se ti fai cullare dal recupero di certe semplici cose…
I biscotti sono caldi, pieni di un calore che va oltre le effettive temperature, se cucini per qualcuno riversi nella preparazione il sentimento con cui impasti, addensi, stendi, decori e mi sembra che abbia un senso particolare fare dono delle cose che realizzi con le mani ; il pancake, il muffin poi è morbido, di una morbidezza che ha a che fare con un abbraccio, con un sapore confortante che avvolge, un sapore che si collega al tempo in cui la mia bisnonna cuoca mi regalava pacchetti di carta oleata con i dolcetti alle mandorle o mia nonna faceva per le feste enormi crostate di crema gialla e nera spruzzate di granella di nocciole…chè è sempre facile spostarsi dai sapori ai ricordi…
Buon Natale a tutti i viaggiatori di questo viaggio tra i viaggi…
" E' un dio, il Tempo,
che rende tutto agevole."
....dall'Elettra di Sofocle...
...per un'amica momentaneamente un po' dispersa.......
"Bruma-foschia
dalla sospesa aurea
e nel silenzio
un suono
come pace sui momenti
a respirar memorie
e umidità"
b a
dalla sospesa aurea
e nel silenzio
un suono
come pace sui momenti
a respirar memorie
e umidità"
(28.01.02)
...ma non è di questo tipo di nebbia che si tratta...
Queste giornate così confuse nella foschia, così inumidite, così sospese ma senza il conforto della magia che produce l'alterazione della nebbia, che evoca il suono lontano del faro, restano piuttosto insipide, un po' fastidiose per quell'insinuarsi sotto le superfici, per quel penetrare nei tessuti umorali e rimanere appese come un brutto abito sullo sfondo di un'incantevole città......mangiano pezzi di un periodo che non ha patine scintillanti, che non ha temperature congrue, che non crede in fondi di tradizione o in regole di rappresentazione come gli altri anni, e aspettiamo che l'offuscamento passi spazzato dal vento gelido di dicembre, attendiamo che le immagini tornino al pieno fuoco per assaporare un calore interno di cui tutti comunque continuiamo ad avere bisogno...ma faremo in tempo?
Perchè siamo scivolati verso il Natale come rotolando in discesa, eppure questa parte dell'anno l'ho sempre immaginata in salita, in verticale a dire il vero ( il calendario nella mia mente è un quadrato che ha per base (ab) luglio, agosto e settembre, seguiti in verticale (bc) da ottobre novembre e dicembre; il lato parallelo alla base (cd) conta gennaio, febbraio e marzo, mentre l'ultimo lato (da) contiene aprile, maggio e giugno...
c db a
...credo derivi da un calendario realizzato da piccola e dal quale non riesco a staccarmi e il mio tempo ancora si scandisce sulla sua forma geometrica, pur trascorrendo secondo ritmi armonici e biologici estremamente differenti...) e adesso siamo alle porte dell'anno, porte ridotte e invecchiate da chiudere e porte grandiose di castello da aprire sul nuovo eppur ciclico andare del tempo ed è rimasto così poco per un cambio climatico e per una variazione di spirito...
... ma troveremo il modo di stringerci e pulire bene il vetro, magari con le mani, e alzeremo i calici a noi stessi e agli altri che ci sono, che vogliono esserci e la cui presenza è ogni volta il motivo per cui siamo ancora qui...
Ritagliare una giornata in cornice.
Cornice di legno dorata, intagliata, profumata d’arte e di storia, la sua, del suo contenuto fatto di un alto grado d’interesse, di un alto livello di concentrazione negli occhi, nei giri e raggiri della mente che recupera le nozioni, che riafferra le situazioni, che riemerge protagonista sulla scena di argomenti conosciuti e analizzati a lungo, ma tenuti da parte per un po’….
Ho le mani che profumano d’argento e le pupille piene di broccati e satin ricamati dopo una giornata così, nelle vene torna a scorrermi la voglia d’arte e conoscenza, sulle labbra riaffiorano termini specifici di uno studio e di un mondo affascinanti ed antichi e ritrovo tutto il senso di certe scelte e dei percorsi intrapresi…
Foglie lanceolate e nastriformi sbalzate sulla lamina d’argento dell’Ottocento, edicole e specchiature seicentesche, trafori finissimi, dettagli a bulino, punzoni cercati con la lente per identificare gli argentieri romani, e poi palmi passati sui manti ricamati a mano con tecniche perdute, stoffe e tessuti che si lasciano riconoscere e che ritrovo magnifici dopo il lungo lavoro della tesi di laurea, ambienti che tornano ad essere familiari, atmosfere cariche di bellezza…
E disquisire d’oreficeria, scambiare opinioni, valutare indicazioni, guardarsi e trovarsi concordi, stringere mani e sorridere di vera cortesia, poi salutare e riaffidarsi all’aria fredda del dicembre delle strade, dei negozi, del traffico, del mare….
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