lunedì 4 giugno 2012

Aspettavo da tempo questa visione. Ho lasciato passare i mesi, l'ho perso al cinema o forse non l'hanno neanche dato, un film che vince la Palma d'Oro a Cannes non si propone come blockbuster. Il grande schermo avrebbe giovato, ma non mi è dispiaciuto trovare il momento giusto e la concentrazione che la pellicola meritava, in una serata d'inizio estate con la pelle profumata dopo il sole, i sensi dilatati e i grilli quieti fuori dalla finestra. 
The Tree of Life. Di Terrence Malick.
Ero predisposta ad una specie di 2001 Odissea Nello Spazio, atto II. E invece Malick è molto lontano da Kubrick, sebbene una delle molte, meravigliose immagini primordiali mi sia sembrata un'aperta citazione: uno spicchio di luce sulla superficie terrestre e nella testa parte immediato l'attacco di Così parlò Zarathustra di Strauss. Però siamo fuori dalla ricerca futuristica e dall'ambientazione fantascientifica, e se si torna alle origini dell'uomo e dei tempi è per arrivare ad una comprensione maggiormente cosmica, ultradimensionale, sopra lo spazio e i pianeti, dentro di noi e nell'aldilà.



Una perdita. Un legame forte che è esempio di tutti i legami e la sua fine, la sua perdita, come ogni perdita. Dopo tanta condivisione, dopo tanta costruzione, impegno, sofferenza, contrasto e tutto quello che cresce con noi come crescono gli alberi, solo una lettera, una telefonata, la notizia di un'interruzione che non si ripristinerà più. 
Non è che una delle scene che il film mette in fila, e arriva tra quelle accostate di un passato anni '50 e un presente tutto scorci in altezza, tutto superfici riflettenti e grattacieli, dove una volta c'erano gli alberi. E' un perno questo elemento della trama attorno al quale partono flash e frammenti di una vita insieme, un padre, una madre e tre fratelli maschi che corrono e si toccano, s'annusano e s'intrecciano come cuccioli di leone. E uno di loro poi a diciannove anni morirà, ma nel film è solo una notizia che crea un vortice di ricordi e riflessioni, sulla morte, sulle origini, sui fili che spostiamo nostro malgrado, sulle responsabilità.




Abbiamo una scelta sopra tutte le altre. Forse possiamo chiamarlo libero arbitrio, alcuni lo fanno. C'è la via della natura, così istintiva e oltre le domande, così vigorosa e piena di stupore. E c'è la via della Grazia. 
Della gentilezza ma anche dello spirito. La via della madre, che è recipiente, è tatto, è gioco e possessione, è presenza e annullamento: ella dà la vita ai figli, la sua vita. 
La madre è luce nel film, è pelle diafana, piedi scalzi, braccia d'albero e i figli sono rami.





Il padre è seme e fusto. Così fragile che ha la scorza dura. Ha quella mano grande con la fede in mezzo. Quella intenzione di educare che è un guinzaglio che avvicina e allontana, come Bach dal suo organo, come la chiesa che frequenta. 
Il figlio che perde è quello più somigliante, il più quieto, il migliore in ogni cosa, ma anche quello che osa zittirlo. Una volta, a tavola, scena del teatro giornaliero, col cibo nei piatti come distrazione. E' il secondogenito. 
Il primo lo istruisce e ne è geloso. Il primo, che è il fulcro del film, è il bambino ribelle, sconvolto da un complesso edipico che lo confonde; è l'unico che vediamo cresciuto, tormentato, a porsi sottovoce le stesse domande della madre, a risalire vie cave e approdare sulle terre acquee attraversate dalle anime, la migliore idea di paradiso che abbia mai visto.
L'ultimo figlio è un'appendice, è in tutte le scene ma ha valore solo il suo sguardo, come tutti gli sguardi della pellicola: pensieri in immagini e dialoghi negli occhi, domande.




Chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo. Le domande sono queste, certo. 
Da una luce che fende il buio, da un'origine terrestre. Rocce, mare, dinosauri, uomini, alberi. 
Divisi tra un tremendo amore e un dilagante senso di colpa.
E dopo? E mentre?
Non può dare risposte il regista come non ne troviamo noi. Forse porsi le domande è sufficiente, aiuta il ragionamento, scavalca l'accettazione sterile e richiama i sensi, convoca tutto il possibile del nostro viaggio, le emozioni soprattutto, quelle che ci mettono in ginocchio e quelle che ci alzano lo sguardo in su.


E che effetto fa un bambino che chiede: "Perché devo essere buono se Tu non lo sei?".


2 commenti:

  1. continua su questa strada di recensire film. hai una sensibilità non comune. bello anche che racconti il contesto della visione: tu, di sera, dopo il mare... bello. pa

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    1. Recensione. Non lo è in fondo. Chi non ha visto il film forse ha potuto cogliere una suggestione dalle mie parole, ma per il resto ero più intenta a riflettere che a recensire. Il film è molto oltre me e una mia capacità di giudizio credo. L'ho assimilato così ma sento che ha fatto più presa di quanto immaginavo, mi ha lasciato un senso di sospensione dentro che produce ancora delle eco.

      Comunque grazie, Pa. Quella brava a recensire sei tu. E vedi tanti, tanti più film di me.

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