lunedì 28 ottobre 2013


LINGUAGGI. La mia intera esistenza si snoda e riavvolge attorno a questo elemento. È quasi ovvio per chi scrive ma a pensarci non è poi così scontato. Me ne accorgo di più in questo momento, con un altro libro della Byatt in mano, un libro pesante per numero di pagine eppure talmente coinvolgente che il solito dissertare nozionistico e cerebrale della scrittrice inglese non mi ostacola come in precedenza; è il terzo di una quadrilogia sul pensiero, sulla letteratura, sulle personalità il cui intelletto grida e rivendica libertà, su una gran quantità di elementi, ma soprattutto sul linguaggio. Non a caso s’intitola La torre di Babele. Mi piace il suo soffermarsi e dissertare di aggettivi, semantica ed etimologie. È qualcosa che comprendo. Mi piacciono i suoi personaggi che si nutrono di conversazioni sui libri, bellezza delle parole, conoscenza letteraria. È qualcosa che sento.
È qualcosa che sperimento ogni giorno. Nella scrittura, nel pensiero che precede e alimenta la scrittura, nella pratica di un lavoro che mi permette di masticare e fare esperienza di linguaggi, espressivi, creativi. L’arte, linguaggio non verbale, la cui grammatica è il pigmento sul pennello, sulla spatola, sulle dita, il cui suono è l’immagine che grida ed è silenzio insieme. Ultimamente il teatro ma nello stesso contenitore, preso dentro un luogo di esposizione a dialogare con ciò che resta tacito solo in apparenza. Entrambi sono l’esito di un vasto contributo umano in termini di movimento, linee, rumori, intelletto, interpretazione, rappresentazione, visuale.
Tutto questo mi spinge molto in alto e in ogni direzione. Mi riempie completamente. Mi dà forza.
Il punto è avere cose da dire, produrre cose da ascoltare, pronunciate o meno.
Per quanto mi riguarda soprattutto scritte.



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